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Francesco Baldessari

Tokyo, la città che visse due volte (PT4)

Possiamo farci un'idea abbastanza precisa di che aspetto avesse Edo alla fine della sua costruzione dando un'occhiata alle 119 stampe che compongono la serie di Hiroshige “100 famose vedute di Edo”, che avevano come tema appunto la capitale.

Si tratta di un’opera considerata uno dei pinnacoli della cultura giapponese, che include località ora notissime come Nihonbashi, Ueno e Shinagawa e che ha quindi anche un certo valore documentario.


Sapendo che, anche se il suo piano urbanistico ha subito col tempo notevoli modifiche, l'architettura giapponese è rimasta pressoché la stessa nel corso degli ultimi suoi secoli di storia, possiamo presumere che la Edo del 1885 dipinta da Hiroshige sia simile a quella appena finita, nel 1632, almeno nei suoi tratti generali.


Il Maestro ritrae una città degna di una favola, spesso chiamata la Venezia dell’oriente ma in realtà troppo diversa per potere davvero portare tale nome. Si tratta indubbiamente di una città incantevole, ma di una bellezza a noi completamente aliena. Le abitazioni non sono strutturalmente molto diverse da quelle di oggi, salvo in un dettaglio molto importante. Ora sono trattate chimicamente per essere incombustibili e quindi bruciano con difficoltà.


Che città è quella di Hiroshige? Immensi voli di uccelli sopra bellissimi stagni, templi, lunghe chiatte fluviali, canali e paludi, giardini, sakura e bambù, tanti fiori ma anche montagne e immense distese di tetti di paglia. Rara è l'immagine che non mostri una qualche forma di acqua o di imbarcazione.


Ci sono numerosissimi ponti arcuati, alcuni aventi i fianchi praticamente verticali, così che coloro che vogliono passarli devono letteralmente arrampicarsi. Questa incantevole città è ora completamente perduta, i suoi canali interrati o nascosti, il suo porto ormai a qualche chilometro dalla sua posizione di allora.


La coppia di immagini più eloquente è forse quella che ritrae il ponte di Nihonbashi nel 1856 e ora.

La trasformazione è stupefacente. Il canale è ancora al suo posto, ma il suo letto, sepolto sotto numerosi strati di autostrade, è morto. La cosa peggiore è che la stragrande maggioranza della distruzione è avvenuta in tempi recenti, dal 1853 in poi, per modernizzare la città.


Una piaga inaspettata si rivelarono gli incendi, che a Edo avevano una frequenza ed una gravità due o tre volte quella del resto del paese. Che Edo venisse periodicamente distrutta da massicci incendi che la incenerivano è del tutto normale.


L’architettura giapponese privilegia l’uso del legno e materiali organici e la stampa di Hiroshige sulla sinistra, anche se non ritrae Tokyo, mostra chiaramente quanto prevalente fosse l’uso di legname e quanto le costruzioni di allora fossero pronte ad ardere.

Perfino gli zoccoli dei cavalli sono protetti non da ferri, ma da corde di foglie di bambù. La ragione principale di questo uso così diffuso di un materiale con inconvenienti così vistosi (relativamente costoso, di breve vita utile e, se stagionato, altamente combustibile) sono i frequenti terremoti. Ma la è la sua combustibilità a rendere le statistiche in merito agli incendi terrificanti.


Nei 270 anni dello shogunato, Edo venne distrutta una volta ogni 25 anni. Il legno ha poi anche alcuni grossi vantaggi. Leggero ed elastico, si deforma in modo da assorbire la forza d’urto del sisma, cedendovi anziché resistervi.


I complessi giunti giapponesi garantiscono libertà di movimento alle colonne ed architravi, di modo che molta dell’energia viene dissipata in semplice frizione. Le macerie sono leggere e facili da sgomberare, contribuendo a diminuire il numero delle vittime. Un edificio può venire finito in un paio di mesi. Infine, il legno risponde più ai canoni di bellezza della tradizione giapponese.


La più distruttiva delle conflagrazioni (ma anche la più formativa, perché le sue conseguenze sono ancora con noi), fu l’incendio di Meireki del 1657. Cominciò a Hongo e si sparse verso sud, distrusse il castello shogunale con grande velocità, aiutato da venti fortissimi.


Proseguì poi per Hibiya e Ginza sinché, giorni dopo, finito il combustibile, si spense da solo. Un terzo della popolazione era stato ucciso o era annegato nel fiume Kanda mentre tentava di salvarsi. Ma il disastro fornì anche un’occasione di riorganizzare la città.


Le strade vennero ampliate fino a 12m di larghezza per isolare gli incendi. La storia dimostrò che la misura non era sufficiente, ma servì a creare il tipico mercato asiatico con le merci esposte sulla strada su grandi cesti, cosa che ricordo all’inizio degli anni ’80 era ancora normale in certe parti della capitale, fra cui quella dove risiedevo.


A sua volta, la presenza di strade così larghe e di traffico così poco intenso determinò il mancato sviluppo della piazza. Tokyo non ne ha una sola, una mancanza che si fa sentire parecchio, specialmente all'imbrunire quando uno andrebbe a farsi un caffè insieme agli amici.

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