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Sara Soliman

Si procede verso la riforma del regime internazionale di tassazione delle imprese

Sotto la Presidenza Italiana del G20 è stato raggiunto l’accordo storico sulla tassazione globale delle multinazionali. L’obiettivo è porre fine al dumping fiscale che le aziende operano ormai da decenni.


Il 9-10 luglio 2021, i ministri dell’Economia dei Paesi del G20 hanno siglato a Venezia un accordo per realizzare un regime fiscale internazionale più stabile ed equo. A tale scopo appaiono fondamentali la riallocazione degli utili prodotti dalle imprese multinazionali, e un’aliquota minima globale (già discussi in sede OCSE).


Il 1° luglio, dopo anni di trattative, l’organismo di cooperazione multilaterale per il contrasto all’elusione fiscale a livello globale BEPS (OECD/G20 Inclusive Framework on Base Erosion and Profit Shifting), ha raggiunto un’intesa sull’introduzione di una tassa minima globale del 15%. L’iniziativa ha trovato il sostegno di 130 Paesi su 139 aderenti.


Le misure concordate nella Dichiarazione su una soluzione a due pilastri per fronteggiare le sfide fiscali scaturenti dalla digitalizzazione dell’economia", sottoscritte in tale sede, hanno incontrato l’avallo dei Ministri al vertice del G20 e aspettano ora di trovare implementazione. Soprattutto, un forte impulso è stato dato dal cambio di rotta della nuova amministrazione Usa che si è dichiarata intenzionata a porre un freno al trasferimento dei profitti delle grandi imprese multinazionali verso i Paesi con minor imposizione fiscale.

Ma che cosa prevede questo accordo?

Il nuovo regime fiscale internazionale combina due ambiti di intervento. Il primo riguarda l’introduzione di una global minimum tax di almeno il 15% sui redditi delle imprese multinazionali, ovunque esse operino o abbiano sede, con ricavi superiori ai 750 milioni di euro – si ipotizza anche un’aliquota più alta. L’intento, in questo caso, è quello di frenare la c.d. corsa al ribasso o race to the bottom per quanto riguarda la tassazione societaria e disincentivare il profit shifting. Quest’ultimo consiste nel trasferimento degli utili verso i Paesi dove il prelievo è pressoché inesistente.


Il secondo, invece, vuole introdurre uno specifico meccanismo di ridistribuzione degli utili secondo cui le aziende dovranno versare le imposte nei Paesi in cui operano. Non più quindi solo dove sono collocate legalmente, ma ovunque si generi il loro profitto, indipendentemente dal fatto che vi siano stabilite.


Secondo le norme internazionali in materia fiscale attualmente vigenti possono infatti essere tassati soltanto i profitti derivanti da una società la cui sede è fisicamente presente in un territorio. Tuttavia, con l’avvento della digitalizzazione le grandi aziende gestiscono business oltreoceano senza necessariamente avere lì sede fisica.


Sulla base di questo principio la maggior parte dei Paesi non tassa i profitti ottenuti all’estero, eludendo gran parte del regime di tassazione. L’accordo quindi, almeno nelle intenzioni, dovrebbe ostacolare la corsa ai paradisi fiscali e impedire che le incongruenze esistenti tra i diversi sistemi fiscali culminino in evasione.


Secondo le prime stime queste misure dovrebbe garantire un gettito aggiuntivo di 240 miliardi di dollari a livello globale. Il G20 ha incaricato l’OECD/G20 Inclusive Framework on BEPS di definire entro ottobre gli ultimi dettagli dell’accordo che dovrebbe successivamente entrare in vigore nel 2023.


Si tratta del primo tentativo sistematico di introdurre regole fiscali su scala globale. Le grandi multinazionali del mondo dovranno ora pagare le tasse nel luogo dove svolgono le loro attività e, allo stesso tempo, un’unica aliquota fiscale minima contribuirà ad arrestare la corsa al ribasso della tassazione delle imprese.

Tuttavia, l’accordo non ha riscontrato il favore di tutti. Sette Paesi che applicano regimi di tassazione agevolata sulle imprese (Barbados, Estonia, Irlanda, Kenya, Nigeria, Sri Lanka e Ungheria) non hanno sottoscritto l’accordo. Al contempo, gli Stati Uniti hanno richiesto l’eliminazione della web tax applicata agli importanti colossi web come Facebook e Google presenti principalmente negli USA e hanno proposto una global minimum tax del 21%. L’Unione Europea spinge invece a preservare la web tax e piuttosto a ridurre l’aliquota globale, venendo incontro a paesi come l’Irlanda (che detiene un’aliquota del 12,5%). La riforma sembra, dunque, favorire gli Stati Uniti che cedono poca base imponibile agli altri Paesi, salvaguardano i loro colossi web e avvicinano l’aliquota globale a quella che l’amministrazione Biden vuole alzare dal 21 al 28%.


Una soluzione unica e condivisa a livello internazionale potrebbe essere in grado di adeguare il sistema della fiscalità internazionale alle sfide poste dalla globalizzazione e dalla digitalizzazione. Tuttavia, esclusi da questo panorama rimangono gli stati che non hanno voce in capitolo e che continueranno ad attrarre imprese alla ricerca di manodopera e materie prime a basso prezzo. Ciò che è evidente è che vi è bisogno di una fiscalità globale che garantisca una minore disuguaglianza fra i Paesi ma, soprattutto, c’è bisogno di maggiore morale.

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