Il Cremlino fa piazza pulita di social e motori di ricerca stranieri. Mentre la narrazione dei media mainstream si fa sempre più unidirezionale, le politiche censorie applicate alla rete pesano sul lento declino dei diritti umani.
Se oggi un forestiero si aggirasse per le strade di Mosca come in Stranger in Moscow di Michael Jackson, entrasse in un bar e collegasse il suo tablet alla rete wi-fi, rimarrebbe interdetto.
Facebook, Instagram, Twitter e poi Google sono stati bloccati da Roskomnadzor, autorità russa per le comunicazioni. Rimangono dunque accessibili solo i social rigorosamente made in Russia: RuTube, versione un po’ kitsch di YouTube, Molodets per TikTok e Marusya per Siri.
La realtà virtuale esce tuttavia dalla porta della rete per entrare dalla finestra della televisione di Stato. Come nel caso di Pervyj kanal, principale emittente televisiva in Russia, che ha attribuito la strage di Buča del 30 marzo ad un complotto tra gli Ucraini e l'Occidente. Niente spazio per le voci fuori dal coro.
Con la tv Aleksei Pivovarov, 47 anni, giornalista, documentarista ed ex caporedattore di NTV News Division, ha chiuso già da dieci anni. Oggi dirige Redakstia ('ufficio editoriale'), un canale YouTube seguito da oltre tre milioni di persone che propone inchieste controcorrente.
Una scelta non indolore.
“Ero sicuro che questa parte della mia vita fosse finita per sempre e che non avrei più lavorato come giornalista”
confessa Pivovarov.
Dall’inizio del conflitto i social - Twitter in primis - hanno rubato la scena ai media tradizionali russi. Da una parte nel racconto della vita sul fronte, spinta propulsiva del movimento di protesta contro la guerra. Dall’altra nel ruolo di gatekeeper, nel lessico giornalistico, i responsabili del fact-checking delle notizie.
Non stupisce dunque che siano stati colpiti da una censura così spietata da parte dei piani alti di Mosca, a cui Facebook ha risposto con il divieto di ricevere pubblicità, sponsorizzare contenuti e monetizzare con i post. Un braccio di ferro che calpesta il concetto di cittadinanza digitale, ovvero la galassia di doveri e di diritti del cittadino nel cyberspazio, ma anche la vocazione della rete alla globalità.
Il diritto di “cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere” sancito dall’art.19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dell’Onu è ancora una volta in ostaggio.
In sua difesa la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti ha proposto il Global Online Freedom Act, una misura che scoraggia la cooperazione tra le società americane e le nazioni favorevoli a politiche censorie di Internet. Pretesto fu l’appello dei giornalisti statunitensi contro l’arresto di Shi Tao, giornalista cinese accusato da Yahoo! di aver inviato agli Stati Uniti un documento riservato del Partito Comunista.
Google ha invece proposto di istituire presso l’Onu un Global Privacy Counsel, un Network di grandi imprese del settore per la tutela dei diritti nel web.
"There is no monopoly on common sense”
canta Sting in Russians. Sarebbe ora di dire addio anche al monopolio sulla rete libera.
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