Excommunicatio cinguettiae sententiae. Sa un po’ di scomunica la sentenza di Twitter contro Donald Trump, accusato di aver istigato attraverso la propaganda l’assedio a Capitol Hill. Una misura annunciata come irreversibile, dal momento che il ripristinamento del profilo dell’ex presidente è escluso anche nell’eventualità di una candidatura ad un secondo mandato.
Ci pensa dunque il volatile della Silicon Valley a fare giustizia nel suo nido.
Una situazione che ha ben poco di fantapolitico, se si considerano questi colossi non più come mere aziende private.
Metanazioni digitali: ecco come li definisce Nicola Zamperini, autore di Manuale di disobbedienza digitale, in una doppia intervista con Federico Mello per Smartmag. Soggetti dotati di protagonismo politico, alcuni dei quali con propri organi giuridici, che stanno corrodendo a vista d’occhio il potere dei governi nazionali.
In Postdemocrazia, il sociologo Colin Crouch vede le democrazie contemporanee sempre più monopolizzate dai protagonisti della globalizzazione, quali società multinazionali o transnazionali.
Un motivo d’insonnia, questo, per non poche personalità politiche. Kamala Harris, vicepresidente degli Stati Uniti, ha proposto di smembrare Facebook, una strategia applicata alle compagnie del petrolio a inizio Novecento.
Una soluzione avallata nella medesima intervista da Federico Mello, autore di Il lato oscuro di Facebook. Ad un eccessivo accentramento di potere deve seguire la sua equa spartizione. Più un auspicio che un principio fisico.
Ma poi Mello giunge ad una conclusione un po’ affrettata: Facebook, uno Stato con una forma di governo, deve darsi una costituzione.
Nel saggio Il mondo della rete. Quali diritti, quali vincoli, Stefano Rodotà vedeva in quest’ipotesi la pericolosa deriva della settorializzazione del diritto profetizzata da Gűnter Teubner, sociologo e studioso di diritto. La frammentazione in molteplici costituzioni civili sarebbe infatti espressione di dinamiche economiche e sociali piuttosto che dell’esercizio di poteri politico-costituzionali.
La Rete poi, secondo il sociologo Manuel Castells, ha dei nodi ma non un centro. La mappa del potere insomma non gravita più intorno a un unico baricentro ma è costellata da tanti hotspots.
È dunque necessaria una reinterpretazione di alcune categorie.
In primis quella di “comune”, spesso oggetto di clamorosi fraintendimenti, come la sua applicazione forzata alla conoscenza in Rete, definita un po’ impropriamente un bene pubblico globale. Tale globalità è infatti irriducibile ad uno schema di gestione proprio di una comunità fin troppo circoscritta per un consorzio umano così sconfinato.
In Vivere la democrazia Rodotà attinge allora da Elinor Ostrom, politologa statunitense insignita del Premio Nobel per l’economia, un’espressione molto più calzante per questo esempio: not community based.
La chiave sta dunque non nell’individuazione di un gestore, ma nella definizione delle condizioni d’uso del bene, potenzialmente accessibile a tutti anche senza una redistribuzione delle risorse.
I beni comuni, ricorda Rodotà, sono a titolarità diffusa: devono essere a disposizione di tutti, generazioni future comprese, e mai monopolizzati da pretese egemoniche.
Si traccia così un ponte tra persone e diritti, al riparo dalle logiche proprietarie e mercantili alla base del conflitto planetario intorno ai beni. Non solo quelli di prima necessità, come acqua e terra, ma anche quelli volti al libero sviluppo della personalità.
Tra questi, oltre alla conoscenza in Rete, l’accesso a Internet, non a caso paragonato da Tim Berners Lee, tra i fondatori del Web, proprio all’accesso all’acqua. Esso viene così rivalutato da situazione puramente strumentale a diritto fondamentale di cittadinanza, preliminare all’esercizio di altri diritti tanto inalienabili quanto violati: quello alla libera costruzione della personalità e alla libertà d’espressione. Un concetto ribadito anche dal relatore speciale Frank La Rue in un rapporto presentato al Comitato per i diritti umani dell’Onu nel maggio 2011.
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