La storia e l’importanza di figure come Alcide De Gasperi e Claudio Demattè meritano di essere ricordate. Partire dal loro vissuto per leggere meglio il presente e gettare lo sguardo sul futuro. Per questo motivo l’Associazione Amici di Claudio Demattè e la Fondazione Museo storico del Trentino hanno collaborato alla redazione del volume Claudio Demattè, costruttore di futuro e di talenti.
«Il testo è un omaggio in ricordo di Claudio, chi lo ha conosciuto e accompagnato durante la sua carriera professionale ha infatti voluto sottolineare la grande capacità di individuare talenti e di farli crescere, mettendo a loro disposizione gli strumenti e le capacità che aveva acquisito nella sua esperienza.»
Esordisce così Michele Andreaus, coordinatore dell’Associazione amici di Claudio Demattè e interlocutore di questa seconda intervista sul tema dell’Autonomia trentina.
Il volume rappresenta la punta dell’iceberg del lavoro svolto da parte dell’Associazione, che ha raccolto l’eredità intellettuale di Demattè, investendo sulla formazione di studenti e giovani talentuosi, considerati un capitale umano, sì rischioso, ma fondamentale per la crescita.
Demattè auspicava un rinnovo dell’impresa italiana. Partendo dalla questione del rischio, quanta importanza veniva data alla gestione delle risorse umane?
«Le risorse umane nella visione di Demattè erano fondamentali, da intendersi non soltanto come rispetto dell’uomo e della dignità umana, ma anche per consentire alle persone di crescere, pur sbagliando. L’errore è insito nella natura umana ed è comprensibile che un giovane, messo nella posizione di prendere decisioni, possa sbagliare.»
«La cultura italiana prevalente è quella di considerare meno di quanto andrebbe fatto la dignità umana, e quindi di equiparare la persona a un fattore produttivo. Inoltre, in Italia non si tollera l’errore, a differenza di altre realtà imprenditoriali, come quella anglosassone e quella americana.
Se allargassimo questo ragionamento ad altri contesti, potremmo definire questa una prerogativa tutta italiana, in cui al potenziale, che comporta rischi, si preferisce la sicurezza che però spesso non ha margini di miglioramento.»
A 17 anni dalla scomparsa, come è stato portato avanti il suo pensiero nell’ambito della gestione del capitale umano?
«Esistono altri esempi come quello di Demattè, anche se l’Associazione Amici di Claudio Demattè rappresenta un unicum. Le borse di studio che ha erogato nel tempo sono sempre provenute da un patrimonio creato dai privati e senza il sostegno del pubblico. Si è voluto continuare sulla strada da lui indicata, investendo sulle persone, nella consapevolezza che queste avrebbero potuto anche sbagliare.»
L’appartenenza al contesto culturale trentino ha inciso sulla volontà dell’Associazione e sul pensiero che Demattè ha sviluppato negli anni?
«L’Autonomia trentina non ha inciso sull’esistenza dell’Associazione, che porta avanti lo spirito di Demattè. L’Associazione è nata a Trento perché lui proveniva dal nostro territorio e perché le persone che hanno fondato l’Associazione, pur essendosi formate e vivendo al di fuori del Trentino, erano trentine.»
«La scelta non è stata fatta secondo presupposti strategici, ma nel rispetto delle origini di chi ha fondato l’Associazione e di Claudio Demattè. Operare in questo territorio ci consente di avere una visibilità più immediata. Ad ogni modo, se l’Associazione operasse in contesti più popolosi e più ricchi di potenziali investitori, ne avrebbe tratto maggior vantaggio, a conferma delle finalità formative. Ma questo solo perché più è esteso il bacino di utenza, maggiore è la probabilità di avere persone di qualità alle quali dare la borsa.»
«Per quanto riguarda Claudio, la provenienza dal nostro territorio non ha influito sulla sua formazione, che è avvenuta al di fuori del territorio dalla maturità in poi. Ha inciso invece sulla scelta del professore e di altre figure che gravitavano intorno a lui, di ritornare ad essere operativi in Provincia, nella fase dell’Autonomia, ad esempio con Bruno Kessler.
Dagli anni Sessanta agli anni Ottanta fu l’Autonomia ad essere consapevole dell’importanza di recuperare talenti trentini che si erano allontanati, perché dessero il loro contributo. Negli ultimi trent’anni sembra essersi purtroppo persa questa abitudine.»
Il potenziale di sviluppo dell’Autonomia trentina ha vissuto una fase d’oro negli anni ’80 ma oggi sembra in declino. Possiamo parlare di un potenziale sprecato? Ci sono i margini per recuperare il terreno perso?
«Si è persa la consapevolezza di appartenere a un territorio dotato di Autonomia e delle potenzialità che da questa conseguono. Senza voler banalizzare, la differenza tra il Trentino degli anni Ottanta e lo scenario a cui stiamo assistendo negli ultimi quindici anni, è la capacità di investire sull’Autonomia per sperimentare anziché per portare avanti una politica conservatrice, priva di visione e che gioca di rimessa, per rischiare meno.
In quest’ottica di investimento, non possiamo dimenticare che la politica siamo noi cittadini ancora prima che chi amministra la Provincia. L’investimento sul capitale umano si può fare se una parte preminente della società è disposta ad abbandonare la propria zona di comfort, mettendosi in discussione.»
«Negli ultimi anni la tendenza in Trentino è quella di crogiolarci nelle proprie eccellenze, ancorandoci a un’idea di queste, che non risponde più alle esigenze e alle sfide del presente. In tal senso, un esempio pratico è quello della pandemia, che al di là della tragedia, essa ci sta offrendo l’opportunità di costruire quasi da zero. L’atteggiamento non dovrebbe essere quello di provare a riparare le storture di un passato che non era sostenibile neanche allora, ma di affrontare in modo propositivo la realtà e i cambiamenti permanenti che il Covid sta apportando alla società.»
«Per quanto riguarda la politica in senso stretto, la crisi della partecipazione, pone il politico a guardare al consenso di breve, per accontentare il cittadino nell’immediato. Anche in questo caso, è determinante il ruolo da protagonisti che potremmo ricoprire: dovremmo essere noi cittadini a determinare i bisogni che la politica dovrebbe soddisfare, ma ci accontentiamo di avanzare istanze che provino a risolvere i problemi dell’oggi, anche se la soluzione a questi problemi potrebbe causarne più gravi, domani.»
In funzione al consenso di breve assistiamo a una comunicazione più orizzontale, che coincide però con un distacco maggiore tra politica e cittadino. Che ruolo potrebbero giocare le strutture intermedie?
«È evidente che siamo davanti a una crisi delle strutture intermedie, siano esse laiche o religiose.
Per quanto riguarda il Trentino, la perdita maggiore è quella di un’informazione locale che generi luoghi di dibattito sani, da contrapporre ai social, che sono ancora troppo complessi da gestire per i più.»
«L’indebolimento delle leve della comunicazione rende difficile formare una consapevolezza dell’Autonomia, ma anche creare la capacità di fare critica al sistema, entrambi elementi necessari per lo sviluppo di uno sguardo visionario sulle potenzialità dell’Autonomia.
Se si somma questo fenomeno alla progressiva perdita di una finanza territoriale, ci si rende conto che stiamo perdendo il controllo degli strumenti che ci permetterebbero di fare leva sull’Autonomia, che deve essere in primis autodeterminazione e capacità di autogoverno.»
Perché formare giovani sul nostro territorio, come con la borsa Demattè, pur sapendo che questi potrebbero poi trovarsi nelle condizioni di uscire da un territorio che non favorirebbe la loro crescita?
«Siamo consapevoli del rischio che si corre a investire in tal senso, ma crediamo che non importi dove il seme che gettiamo maturi, quanto che le radici siano qua, per creare delle reti di collaborazione con risorse altamente sviluppate, che aiutino il Trentino ad uscire dai propri limiti geografici e di orizzonte.»
È possibile raccontare di un’Autonomia che si fa risorsa per la nazione e per l’Europa, a partire dai vissuti di persone come Alcide De Gasperi e Claudio Demattè?
«Questi esempi valorizzano il potenziale dell’Autonomia, che va però celebrata senza guardare soltanto al passato, ma con il coraggio di avere anche una visione sul futuro a cui la nostra Provincia può andare incontro.
Se proprio vogliamo rifarci a queste figure, possiamo provare a domandarci che cosa farebbero queste persone oggi, a parità di situazione e condizione.
Sicuramente avere spazi di pensiero liberi potrebbe aiutare a formare le persone e ad uscire dalla comfort zone, che rappresenta sicuramente una sicurezza, ma non valorizza il potenziale.
Stiamo assistendo alla formazione di una società rinunciataria, in cui si preferisce delegare anziché essere protagonisti, ma senza l’impegno e la partecipazione, non possono nascere idee nuove.»
Come si può raccontare di un Trentino in potenziale sviluppo e che ruolo può rappresentare l’Europa?
«L’unico modo per raccontare i valori e lo sviluppo potenziale del Trentino è cambiare la narrazione, che non dovrebbe essere unicamente focalizzata sulle eccellenze passate del nostro territorio, ma anche su quelle del presente che possono accompagnarci nel futuro. Non va poi dimenticato che il modo migliore per fare una narrazione efficace è quella di accompagnare alle parole i fatti. In tal senso il ruolo dell’Europa sarà sempre più importante, specialmente se acquisirà una dimensione politica, per favorire sistemi come quello autonomista trentino.»
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